Come difendersi dall’inflazione: parola d’ordine diversificare
La recente impennata dell’inflazione (+8,2% su base annua in base ai recenti dati diffusi dall’ISTAT) ha eroso il potere d’acquisto di beni e servizi in modo costante e generalizzato. Un’accelerazione, dovuta soprattutto all’aumento su base tendenziale dei prezzi dei beni energetici, con un impatto in ogni settore del “carrello” di acquisto dei consumatori.
Ma come è possibile difendersi dall’inflazione? Quali sono gli accorgimenti da mettere in pratica per salvaguardare i proprio potere di acquisto? Jonathan Figoli (Foto in alto), divulgatore finanziario e Ceo di Professione Finanza & Family Economy – innovativa piattaforma per migliorare la consapevolezza economica e finanziaria – svela in una Top 5 gli errori da evitare e le best practice che possono davvero fare la differenza.
1. Prevenire è meglio che curare: risparmi al sicuro con una gestione “ad hoc”
L’unico strumento per battere l’inflazione ce l’ha la Banca Europea con l’aumento dei tassi di interesse. Questa scelta, però, porta ad un più difficile accesso al credito, con conseguente crisi per le aziende perché va a diminuire la massa monetaria, ovvero la quantità di moneta, in circolazione rendendo così possibile il continuo aumento dei prezzi. Questo processo non è istantaneo, ma necessità di un periodo più o meno lungo – solitamente dai sei mesi ai due anni – durante il quale non si può fare molto per affrontare l’inflazione: l’unica possibilità è prevenirla gestendo in modo adeguato i nostri soldi.
2. Non lasciare giacenze importanti sul conto corrente:
“Gli italiani sono un popolo di risparmiatori, oggi fra risparmi privati e liquidità aziendali, ci sono quasi 1.700 miliardi di euro fermi sui conti correnti”, spiega Figoli. “Ma la liquidità in tempi di inflazione elevata si svaluta rapidamente ed espone i nostri soldi al rischio di una perdita certa. Molto meglio, quindi, cercare soluzioni di risparmio e investimento che possano tutelare il potere di acquisto dei nostri risparmi”.
3. Scegliere Titoli di Stato:
Si, può essere una soluzione ma… Attenzione! Si fa un gran parlare in questo periodo di BTP Italia o BTP Valore il cui rendimento è indicizzato all’inflazione ma, se oggi offrono un rendimento ancora molto inferiore al tasso di inflazione – e quindi, almeno nei primi anni, rimane comunque la perdita di potere reale – dall’altro, nell’acquisto di titoli obbligazionari, bisogna essere consapevoli che un eventuale aumento dei tassi di interesse, come è presumibile pensare in periodi di inflazione alta, porta ad una anche consistente perdita del valore di mercato degli stessi titoli, soprattutto se hanno una scadenza in là nel tempo. Se questo per te “non è un problema” perché rispetterai la scadenza allora… fallo anche con un portafoglio più diversificato di obbligazioni, azioni e fondi comuni.
4. “Investire” in inflazione:
è un’operazione che richiede una significativa esperienza in ambito finanziario, ma l’inflazione è un aumento generalizzato dei beni e per produrli servono sempre e comunque materie prime e fonti energetiche. Se le aspettative di inflazione sono elevate, si può quindi decidere di rischiare finanziariamente ed investire nelle commodities: petrolio, gas ed energia sono stati i principali artefici del rialzo generalizzato dei prezzi in questi ultimi anni. Ma il loro prezzo è sceso, mentre l’inflazione continua a essere elevata: è importante, quindi, affidarsi alla consulenza di un esperto per sapere bene quando entrare e quando uscire da questi mercati.
5. TFR? In un’ottica di lungo periodo è meglio non tenerlo in azienda
L’unico strumento che davvero è protetto dall’inflazione è il TFR lasciato in azienda, la cui rivalutazione economica è proprio legata a questa.
Ma conviene davvero lasciare il proprio TFR in azienda?
Beh nel lungo periodo solitamente i mercati finanziari – e quindi il rendimento delle forme complementari – hanno sempre reso di più del tasso di inflazione, ma soprattutto, la decisione di non versare il TFR alle forme di previdenza complementare ci fa perdere il contributo del datore di lavoro che è previsto da tutti i Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro. E spesso questa integrazione è più altra del tasso di inflazione stesso.
L’1,5% + il 75% dell’indice Istat dei prezzi al consumo è, infatti, il rendimento che ogni datore di lavoro deve riconoscere al TFR dei propri dipendenti lasciato in azienda. Conviene quindi lasciare il TFR in azienda e non destinarlo alla previdenza complementare? Nel 2022 decisamente si, nel 2023 forse, ma in linea generale – e nel lungo periodo – assolutamente no (vedi ultimo punto).
6. Sottoscrivere una forma di previdenza complementare:
Un’inflazione elevata è un danno davvero notevole, soprattutto per la nostra pensione, in quanto il contributo che versiamo nella pensione pubblica viene rivalutato in base al PIL italiano e la rivalutazione, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non tiene assolutamente conto dell’inflazione. Per non rimanere sorpresi proprio nel periodo della vita in cui bisognerebbe essere più sereni economicamente è importante, quindi, sottoscrivere una forma di previdenza complementare la cui rivalutazione è data dall’andamento dei mercati. Se poi sei un dipendente con un Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro e aderisci al fondo di categoria, hai il diritto di ricevere il contributo del lavoratore che solitamente raddoppia il contributo personale e rappresenta così un “guadagno” iniziale già del 100%.